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La mia vecchia city. La voce dell’Etna

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La mia vecchia city

Mia nonna faceva la stessa strada decenni fa, stampando espressioni basite sulle facce di chi non riusciva a capacitarsi di quel che combinava. 4km di camminata per giungere dal quartiere greco in cui risiedeva alla proprietà di campagna, in contrada Statella.
Ieri, dovevo far evaporare la rabbia e certo non avrei potuto permettermi di attendere la tanto agognata lezione ginnica: il disastro si sarebbe presentato alla mia porta! Dunque, cappuccio in testa e occhialoni scuri, mi sono messa in marcia nella direzione inversa, per catapultarmi in quel crogiuolo di medioevo che è la mia piccola city.
Randazzo non ve la voglio presentare come si fa di solito, per attirare i turisti: territorio immerso nei tre parchi dell’Etna, dei Nebrodi e dell’Alcantara, patrimonio artistico-culturale di antica tradizione e pregio archeologico, dominazioni importanti, carceri, musei, chiese e bla-bla-bla. Questo lo si trova scritto ovunque.
Immaginiamo…no, immaginate me che come una pellegrina mi dirigo, un passo avanti l’altro sull’asfalto distruttore di ginocchia, nel mio paesotto per raggiungere la casa della mia infanzia. Finalmente, c’è da dire, i tempi sono cambiati o, semplicemente, la gente ha capito che non deve offrirmi passaggi (spero di non aver mostrato mai il mio volto rabbioso, la mia lingua tagliente) motivo per cui ho potuto godermi i pensieri furiosi e cercare di dipanarli con pazienza. E, così, dopo 45′ mi sono ritrovata davanti a quell’orribile cartello comune a tutti gl’ingressi d’Italia che dice “Welcome to Randazzo”. Certo, “u ciapparu” non è proprio il massimo come biglietto da visita per una cittadina che si fregia d’esser medioevale! Quindi inforco la salita senza guardarmi di lato, sperando di attraversare il prima possibile il tratto non proprio consono alla bellezza. Superato anche il bivio per i Nebrodi, avvilita per quella costruzione perennemente chiusa che dovrebbe essere il nostro ufficio turistico, decido di scodinzolare sotto i resti delle mura, varcare la soglia della porta degli Ebrei e tuffarmi in quel mare di straduzze che, wow, mi fanno respirare storia. E m’infilo in via Marconi, nel rione di Santa Maria, ridendo dell’erbetta che rallegra le basole di lava sapientemente acconciate per srotolare di carrozze, per scalpitare di cavalli; e odo l’eco di storielle bisbigliate dai fili verdi che, prepotenti e pettegoli, usurpano gli spazi tra una pietra e l’altra. Ma i feuilleton non durano a lungo: la meraviglia s’interrompe attraversando via Umberto, “u cursu”, e proseguendo dall’altro lato. Mattonelle insulse, buche rattoppate, asfalto qua e là. Un vero scempio! Ma basta alzare lo sguardo per attutire i demoni della rabbia: balconi acconciati da fioriere colorate e frizzanti, finestre che spiano, roste arzigogolate, strettoie e vicoli che nascondono panni stesi. E poi le donne che spazzano davanti le porte, gli ultimi “curtigghi” che si fiondano in un ‘aria dall’udito raffinato, le porte aperte per arieggiare o far asciugare gl’ingressi bagnati di fresco, i sacchetti dell’immondizia appesi e penzolanti. Έ un quadro affascinante che allevia l’ira, quasi ormai chetata. La sorpresa più strabiliante, però, il regalo che cerco ogni volta, il pacco che non vedo l’ora di aprire è quello che stordisce l’olfatto, stuzzica il gusto: sono le prime ore della mattina, quelle in cui ancora molti dormono, altri sono seduti in uffici o piegati sulla terra. Le cucine “mettono mano” presto e i profumi si diffondono tra le narici dei passanti, si mescolano, slittano da una casa all’altra: si può distinguere il sugo di pomodoro, l’impasto delle polpette, qualcosa che frigge. Immediatamente la testa si mette in viaggio, torna indietro nel tempo, quando stringevo la sua mano di nonna e la signorina di via Fisauli soleva offrirci cibo appena pronto. Ma noi non accettavamo e non per alterigia-come conviene dedurre- solo per disciplina: si mangia a orari, diceva mia nonna. Poi tornavamo a casa a preparare crostate e pan di spagna, attirando estimatori da tutte il vicinato.
Me la sono respirata di nuovo quell’aria: ha lo stesso profumo di 20 anni fa! E, così, coi polmoni pieni, mi sono rimessa in cammino sgattaiolando tra i misteri di via Cairoli, il basolato di via Bonaventura, salutando il cartello indisponente. Io, oggi, abito a Statella!

Marzia Scala

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